lunedì 7 ottobre 2013

 
"Lei intesse tutte le cose"
 
The New World, Terrence Malick

mercoledì 28 marzo 2012

Chiamati a dare la vita


Marco Cirnigliaro, Il cavaliere di Dio

[...] Offro a te tutto me stesso, lo studio e il gioco,
le parole e il silenzio, il pianto e la gioia,
seguendo la compagnia che tu mi hai dato
come segno della tua presenza,
perchè la mia vita si compia e il mondo ti riconosca [...]

(da Consacrazione a Cristo, Re dell'Universo)

domenica 11 marzo 2012


Paul Cézanne, Mele e arance, 1895-1900 circa,
Parigi, Musée d'Orsay


"[...] tutto ciò che vediamo non è vero, si disperde, se ne va. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di lei, di ciò che ci appare. La nostra arte deve darle il respiro della durata [...] Deve farcela gustare come eterna. Che cosa c'è sotto di lei? Forse nulla. Forse tutto. Tutto, comprende?"

Paul Cézanne in Joachim Gasquet, Ce qu'il m'a dit, in Cézanne, 1921)

lunedì 26 dicembre 2011

mercoledì 27 luglio 2011


Cameretta, Elena Nassi




Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno. Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per così dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi.




(Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal)

domenica 27 marzo 2011



(Andrea Mantegna, Cristo Morto, 1475-1478, tempera su tela, 68x81 cm, Pinacoteca di Brera, Milano)


Il Cristo Morto di Mantegna




Percorro i corridoi della Pinacoteca di Brera e, voltato l'angolo, mi trovo innanzi alla tela del Cristo Morto dipinta da Mantegna. Questa si presenta davanti a me con i suoi colori spenti, con la pesantezza del corpo morto di Cristo e con le smorfie di dolore di Maria, Giovanni e della Maddalena. La scena mi riempie il cuore d'angoscia. La prima cosa che noto sono le sproporzioni del corpo del morto. Il soggetto è in prospettiva, ma i piedi sono troppo piccoli per essere in primo piano; le gambe sono corte, il torace troppo grande, le spalle sono così larghe che sembra che le braccia siano staccate dal corpo e la testa è enorme. Possibille che Mantegna abbia sbagliato a usare la prospettiva? Conoscendo la sua maestria nella resa illusionistica sicuramente no, eppure vedendo l'opera così da vicino mi sembra sbagliata. Di fatto questo corpo sproporzionato mi lascia dentro qualcosa di pesante, di amaro, un turbamento, una ferita. Lo spazio in cui si svolge la scena è tanto angusto che, anche solo osservandolo dall'esteno, mi manca l'aria. Non riesco a tenere per molto tempo lo suardo sul quadro e una sensazione di claustrofobia mi costringe a voltarmi e a fare qualche passo indietro per allontanarmi dall'opera. Prendo un respiro e mi giro verso il dipinto. Un colpo al cuore mi prende e mi toglie il respiro: tutte quelle sproporzioni sono svanite improvvisamente e la prospettiva del quadro è diventata un tutt'uno con quella reale; la stanza si allarga, lo spazio illusionistico del quadro sfonda la cornice e si fonde con lo spazio reale trasportandomi all'interno della scena. Ora mi trovo in un corridoio che porta a quella stanza ed esattamente di fronte a me, attraverso la porta, riesco a vedere il corpo di Cristo, freddo e bianco, disteso su quel blocco di marmo, e attorno a lui la madre e gli amici che piangono e si disperano. Guardo da lontano le mani di quel Cristo, a cui prima non avevo fatto caso: quelle sono le mani di un uomo vivo, dormiente, che tengono delicatamente i lembi del lenzuolo. Un morto non può avere delle mani così vive. Anche il volto del Cristo è stranamente sereno e le sue sopracciglia aggrottate non sono quelle di un'ultima espressione di dolore, sembrano invece appartenere ad un uomo che riposa ed attende il momento del risveglio. La luce che entra da destra gli accarezza il corpo e dipinge d'oro la carne candida di quell'uomo, come la promessa di una nuova vita, una vita eterna. Ancora una volta, forse ora più che mai, Mantegna è riuscito a fingere con la sua pittura uno spazio illusionistico, cogliendo l'osservatore di sorpresa, sconvolgendolo di fronte a quell'evento che sta accadendo di fronte ai suoi occhi, in quel preciso istante. Che questo dipinto abbia sorpreso lo stesso Mantegna, portandolo a non separarsi mai da quest'opera? Guardo per l'ultima volta il quadro e mi allontano pensando a Mantegna che è rimasto ferito dalla sua stessa opera, che lo ha sconvolto nel profondo, a lui che si fermava di fronte alla sua tela pensando che forse ciò che aveva fatto era al di là delle sue limitate capacità umane e che forse la sua mano aveva obbedito ad un Intelletto più grande.



Elena Nassi

domenica 16 gennaio 2011


Pietà di Michelangelo, Galleria dell'accademia, Firenze, copia dal vero

"La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l'uomo al suo Destino ultimo"

Benedetto XVI